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YOGA E MEDITAZIONE

Scritto da Marco Ferrini

Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: lo stare seduti a gambe incrociate in uno stato di quasi autoipnosi non è meditazione. Molta gente pensa che meditare sia questo. Non è così. Per capire cos’è la meditazione wikipedia non aiuta. Bisogna andare alle fonti della letteratura Yoga. Ad esempio, gli Yoga Sutra. Meditare – ci dice il saggio Patanjali – è sganciare il pensiero dai suoi condizionamenti.
Nella mente profonda (citta) restano registrate da chissà quante vite memorie latenti (samskara) che influenzano il nostro pensiero e il nostro agire senza che, il più delle volte, ce ne rendiamo conto.
La meditazione è uno degli strumenti che permettono ai samskara di venire a galla, di affiorare alla coscienza. Una volta che sono approdati a livello della mente cosciente, diventa possibile liberare il pensiero dai suoi condizionamenti.
Quando ciò avviene, il sé (atman) ritrova se stesso, lascia la compagnia perniciosa dell’ego (ahamkara), abbandona le false identificazioni (io-donna, io-uomo, io-vecchio, io-giovane, io-italiano, io-indiano, io-medico, io-artigiano etc.) e comincia a vedere la realtà per quello che è. Quando ciò accade la persona inizia a percepire distintamente dentro di sé la voce dell’anima.
Allora l’esistenza cambia davvero, e cambia in meglio.
Ricordo perfettamente i momenti della mia vita in cui questo è avvenuto portando una visione (darshana) limpida della realtà. Il tempo restante va impiegato a investire tutte le forze, con determinazione e perseveranza, per rimanere su quel piano di coscienza di ordine superiore ed evitare di scivolare allo stadio precedente.
Ma come si arriva allo stato di dhyana, la meditazione, in cui avviene tale sganciamento del pensiero dai condizionamenti? Patanjali indica un percorso a tappe, di cui dhyana è la settima ovvero la penultima prima del samadhi. Quest’ultimo è l’obiettivo dello yoga, lo stato di beatitudine in cui si sperimenta l’unione tra il sé individuale e il sé cosmico, l’unione dell’io con Dio: il ritorno allo stato di non-separazione.
Le prime due tappe sono yama e niyama: ciò che non si deve e ciò che si deve fare. Per poter aspirare ad ascendere a livelli di coscienza superiori è necessario assumere comportamenti corretti verso sé stessi e verso gli altri. Agire secondo questi principi – sono dieci, il primo di tutti è ahimsa, la non violenza – previene tanti lividi, graffi, traumi, anche psichici.
La terza tappa è asana: imparare a gestire e controllare il corpo. Per acquietare la mente ed entrare in contatto profondo con il sé, è necessario riuscire a mantenere il corpo fermo, e ciò richiede allenamento. Dopo asana c’è pranayama, che è il controllo dell’energia vitale attraverso quello strumento preziosissimo che è il respiro, la cerniera tra il corpo e la mente, tra la dimensione grossolana e quella sottile.
Le pratiche di pranayama portano a pratyahara, il ritiro dei sensi, la quinta tappa. I sensi per natura tendono all’estroversione; vanno presi per mano come fanciulli e convinti a fare una passeggiata all’interno; gli va fatta fare insomma un’inversione a “u” e portati dentro. Una volta che si sensi si sono scollegati dagli oggetti del mondo fisico si può iniziare un lavoro straordinario.
La sesta tappa si chiama dharana, ed è la concentrazione. Patanjali afferma che la mente va fatta diventare un unico punto; è il passaggio dall’ottusità all’acutezza, è il ritirasi nel vertice del cono: noi siamo la base del cono, la concentrazione è la punta del cono. Un punto, non un’area, non una circonferenza, non un diametro: un punto.
Questo punto, secondo la Tradizione, può essere Dio, il Guru, una persona santa. Krishna nella Bhagavad Gita dice ad Arjuna: “Concentrati su di me” (VI, 13-14). Dove non c’è rupa (la forma) lo sforzo di concentrazione diventa più faticoso (quando poi si sarà diventati pratici, si potrà anche fare a meno della forma, dell’immagine…). Il passo successivo è dhyana, la meditazione, alla quale non si arriva attraverso uno sforzo: semplicemente accade.
È interessante osservare che la meditazione e il samadhi si collocano alla fine di un percorso che richiede impegno, dedizione, disciplina, investimento di tempo e di energie. Il conseguimento è tuttavia dirompente e ripaga di ogni sacrificio. Si conquista il Benessere, quello vero, che consente di vivere presenti e centrati.
Una persona che sta bene sente la necessità di far star bene gli altri perché sa che è suo dovere condividere il Bene che ha ricevuto. È spinta a farlo senza imposizione, pretesa o scopo egoistico dal momento che nulla si può imporre tanto meno l’amore. È davvero rivoluzionaria la via dello Yoga: fa cambiare prospettiva alla vita. Il mondo fuori non scompare, resta lo scenario di sempre: restano le montagne, i prati, i boschi, i fiumi, il tepore del vento primaverile, il freddo acuto dell’inverno, gli impegni famigliari, lavorativi, i ruoli sociali… Nulla scompare, le persone intorno continuano a soffrire e a morire, ma la percezione dello yogi è ormai totalmente altra. Rimane immerso nel mondo, nei doveri che si è assunto, ma con uno spirito trascendente.
Uno yogi occidentale, Dante Alighieri, che fece l’esperienza dell’ascensione a piani superiori di coscienza e la raccontò nella Divina Commedia – il viaggio della sua anima dall’inferno coscienziale al paradiso della coscienza divina – testimoniò: “Nel ciel che più della Sua luce prende, fui io e vidi cose che ridire né sa né può chi di lassù discende” (Par. I, 4-6).


ARTICOLO DI MARCO FERRINI PUBBLICATO SULLA RIVISTA VIVERE LO YOGA n° 85,  FEBBRAIO-MARZO 2019

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