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ALLA RICERCA DELL'ESSENZIALE

Scritto da Marco Ferrini

Nel linguaggio comune si usa l’espressione: “Andare al sodo”. È l’invito positivo ad andare al nocciolo delle questioni, a ricercare l’essenziale.

Quando si capisce l’essenza delle cose, si è già un pezzo avanti nel cammino della vita: tutti sappiamo che l’essenziale non è negoziabile.

Ma non tutti, pochi in realtà, riescono a identificare cosa è essenziale per loro stessi e a progettare la propria vita di conseguenza. Molti dicono: “L’essenziale è la salute!”. Ma fino a che non specificano cosa intendono per “salute” non possiamo essere sicuri che abbiano colto l’essenziale. La salute del corpo o quella della mente? O la salute dell’anima?

Altri dicono: “L’essenziale è la felicità!”. Ma stanno parlando della felicità autentica, quella che dura, o dell’effimero, transeunte piacere destinato a tramutarsi presto nel suo opposto, ovvero in sofferenza e dolore?

Ogni cosa ha dunque un’essenza. La vita stessa ha un’essenza. Anche lo yoga ha la sua essenza. Nella Praśna Upanișad, l’Upanișad vedica “delle domande”, si racconta di alcuni grandi sapienti che, desiderando scoprire l’essenza delle cose, vanno dal saggio Pippalāda con sottobraccio la legna per accendere il fuoco sacro dell’iniziazione. Pippalāda, nell’accoglierli come discepoli, li invita a fermarsi a vivere presso di lui e a praticare le ascesi per un anno. Solo dopo potranno cominciare a porgli domande. E lui potrà spiegare loro i fondamenti della scienza sacra, invitandoli a cogliere la differenza tra il sole, che è l’essenza, e la luna, che è la forma. Il sole rappresenta l’atman, che con i suoi raggi diffonde la vita ed è l’essenza immortale di ogni essere; la luna rappresenta il corpo, che vive grazie alla luce del sole ed è la forma mortale che cela l’anima essenziale.

Finché il praticante rimane impigliato nello yoga esteriore, non potrà cogliere l’essenza dello yoga. E corre il rischio, pur dopo molti anni di esercizi sul tappetino, di non aver mai praticato per davvero.

Patanjali, l’autore degli Yoga Sutra, offre l’imprescindibile distinzione tra bahiranga yoga (lo yoga esteriore) e antaranga yoga (lo yoga interiore). Quando entriamo nel secondo stadio, iniziamo ad avvicinarci all’essenza dello yoga, che è costituita dal samyama: la concentrazione (dharana), la meditazione (dhyana) e l’assorbimento nel sè nei vari gradi possibili (samadhi).

Lo yoga, per essere definito tale, deve recare non solo più salute, vitalità e benessere fisici ma anche una trasformazione in chiave evolutiva della personalità e del carattere. Quale “scienza della realizzazione del sé”, e non solo mera ginnastica per il corpo, ha infatti lo scopo di portare il praticante a liberarsi dai limiti dovuti ad attaccamenti e condizionamenti, a far emergere le qualità più alte già presenti in lui in potenza, a illuminare le parti buie della sua psiche.

L’apice del percorso è la realizzazione che “Aham Brahmâsmi”, “Io sono Spirito” (Bṛhadāraņyaka Upanișad). Non una comprensione intellettuale ma la chiara consapevolezza interiore della realtà della propria natura spirituale, della propria essenza. Una realtà anadi e ananta, senza inizio e senza fine, radicalmente altro rispetto al corpo mortale. Patanjali, nell’esporci il fine e l’essenza dello yoga, si ferma qui. E arrivarci sarebbe già un gran bel risultato, che richiede un desiderio ardente e una pratica intensa e costante. Lo yogi che conquista tale stato di coscienza registra alcuni effetti su di sé: calma nella mente, gioia nel cuore e un senso di equanimità verso tutti gli esseri. Egli dimora stabilmente nel suo centro e non perde la pace nemmeno di fronte agli accadimenti più avversi.

Nella Bhagavad Gita questo stato di coscienza “paradisiaco” è descritto molto bene. “Chi ha realizzato il Brahman, vive in uno stato di felicità profonda. Non si lamenta più, non desidera più nulla, si comporta in modo equanime verso tutti gli esseri, e ottiene di amarmi con l’Amore più grande” (XVIII, 54).

Lo yoga dell’Amore è la strada più appagante. La tradizione del Bhakti Yoga, lo yoga dell’Amore, insegna che anche realizzando il samadhi più elevato, sentiremmo che manca ancora qualcosa.

Ma che cosa? Lo spiega Naradamuni a Vedavyasa, in un celebre dialogo avvenuto a Badrinath, un luogo sacro dell’Himalaya. Il secondo è il famoso veggente compilatore dei Veda, un asceta saggio. Ha svolto coscienziosamente i tutti suoi doveri sacri, ha camminato nel dharma comportandosi in modo irreprensibile, ha svolto lunghe e impegnative ascesi. Sente però di non essere completamente appagato. Che cosa gli manca? Medita intensamente sul proprio guru Naradamuni, anch’egli un grande saggio, un’anima realizzata che, manifestandosi di fronte a lui, gli risponde: “Grande saggio, i tuoi sforzi sono stati encomiabili, ma non ti accorgi che quello che ti manca è descrivere l’Amore”?

Questa narrazione si trova nel Bhagavata Purana (I, IV, 27-32 e I, V, 8-12), uno dei monumenti letterari della bhakti, che narra le meravigliose avventure d’amore tra Krishna e i suoi innamorati devoti. Un affresco narrativo potente che, a chi sa andare oltre la lettera, rivela il segreto dei segreti: l’essenza dello yoga, l’essenza della vita stessa, è l’Amore. Diventare Amore. Essere Amore.

La bhakti, il samadhi dell’Amore, è dunque il coronamento di tutte le forme di yoga e la meta stessa dell’esistenza: “La vita è un viaggio, il mezzo è la conoscenza, la meta è l’Amore”.


ARTICOLO DI MARCO FERRINI PUBBLICATO SULLA RIVISTA VIVERE LO YOGA n° 89,  OTTOBRE-NOVEMBRE 2019

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