Teoria e prassi per una vita di successo - Inno alla Gioia
La felicità è una conquista! Questo perché la pratica delle virtù non ripaga immediatamente. Ci sono scorie, accumulate in forma di erronei convincimenti e cattive abitudini, che debbono essere smaltite prima che la soddisfazione sgorghi dal cuore. La conoscenza e il modello di chi ha già percorso questo cammino costituiscono due componenti fondamentali per superare gli attriti iniziali.
Da una parte è indispensabile impegnarsi a coltivare desideri, pensieri, emozioni e comportamenti costruttivi (niyama); dall’altra è imprescindibile prendere le distanze dagli equivalenti distruttivi e involutivi (yama). Nel corso di questo “addestramento” è molto probabile, se non sicuro, incorrere in diversi errori; ma la spinta irrefrenabile alla felicità, unita alla fiducia nel metodo, ci incoraggiano a perseverare, valorizzando le parziali vittorie che man mano si susseguono. Attraverso questo sentiero dello Yoga conosciamo la felicità in quanto esperienza concreta e non mero concetto astratto.
Per vincere una guerra bisogna conoscere il proprio avversario. Nella Bhagavad-gītā questo è individuato nella bramosia (kāma): la ricerca compulsiva e frustrante di soddisfare i propri bisogni profondi con beni di natura effimera. Tra felicità e piacere sussiste una differenza categorica.
La felicità è caratteristica intrinseca dell’anima, mentre il piacere dipende dalla momentanea interazione dei sensi e della mente con gli oggetti a essi corrispondenti.
Il piacere non è a nostra disposizione, in quanto gli oggetti dei sensi non dipendono dalla nostra volontà e hanno natura temporanea. Perciò, il tentativo di mantenere stabile l’esperienza del piacere è di per sé nevrotico e fonte di sofferenza. La felicità, invece, può essere resa stabile attraverso la pratica delle virtù.
Non si tratta di rifuggire i piaceri e le letizie mondane, ma di ricollocare tutto nel giusto ordine. Piacere e dolore -tanto fisici, quanto mentali- si succedono nel corso della vita come conseguenza di eventi che prescindono dal nostro volere. Invece la felicità dipende dalla nostra attitudine e può sempre essere mantenuta, persino in corrispondenza di eventi dolorosi. Questo avviene perché la felicità è il fulcro, la realtà, la meta; mentre il piacere è sussidiario, contingente e marginale.
Se impostiamo la nostra vita secondo l’ordine delle cose -ossia praticando le virtù, nella consapevolezza della dimensione superiore cui siamo chiamati- naturalmente ci troveremo a sperimentare anche i piaceri che l’esistenza incarnata procura. Li incontreremo lungo il cammino, li sperimenteremo con gratitudine, e li saluteremo con serenità nel momento in cui svaniranno per la loro stessa natura temporanea. Lo stesso faremo con i dispiaceri, che pure questa incarnazione dispensa.
Se, invece, decidessimo di volgere la nostra vita alla ricerca dei piaceri, ci condanneremmo all’ansietà e alla sofferenza, in quanto porremmo il nostro bene in qualcosa che è esterno e indipendente da noi, di cui non possiamo disporne secondo il nostro volere e che ci può essere sottratto. Denaro, fama, potere, piaceri dei sensi: tutto ciò è esterno a noi, e dipendere da queste cose ci pone in una posizione di grande pericolo e sofferenza. Una posizione diametralmente opposta a quella che consente di raggiungere la coltivazione della felicità.
La felicità è espressione della nostra identità profonda e nessuno, all’infuori di noi stessi, ce ne può privare. È a nostra disposizione, perché frutto di retto comportamento. Pensare che risieda all’esterno di noi è la prima causa di ogni sofferenza. Questa vita è una straordinaria opportunità per compiere il nostro viaggio dall’infelicità alla felicità. Non dovremo aspettare di giungere alla meta per cominciare ad assaporare frutti dolcissimi, perché ogni passo compiuto nella giusta direzione rilascia una quota di gioiosa vitalità che ristora dalla fatica e rimanda alla pienezza che ci attende alla fine del viaggio. La metà è l’amore per Dio e per tutte le creature: la più alta forma di felicità.
La psicologia dello Yoga ci insegna che non c’è differenza tra noi e gli altri. Il bene che cerchiamo per noi dobbiamo produrlo anche per gli altri. Questo non significa abolire la proprietà privata o promuovere la promiscuità, perché l’identità che sussiste tra noi e gli altri attiene a un livello superiore di coscienza e non al piano dei corpi. Significa, piuttosto, gestire equamente le risorse di cui disponiamo al fine di favorire l’evoluzione di tutti. Se manchiamo di equanimità e applichiamo misure diverse per noi e per gli altri, non potremo mai accedere alla felicità.
Da una parte siamo individui distinti e dall’altra apparteniamo a un’unica comunità. Questa duplice natura non può essere concepita logicamente, ma è imprescindibile tenerne conto se vogliamo realizzare i nostri progetti di vita evolutiva. Agire per il bene altrui significa agire per il nostro bene; agire per il nostro bene senza prendere in considerazione il bene altrui significa, infine, procurare il nostro male.
Dio risiede nel cuore di tutte le creature; è il fuoco dal quale le anime promanano come scintille. In lui si realizza l’unità di tutti gli esseri; in lui possiamo amare tutte le creature; e in ciascuna creatura possiamo amare Dio. Questa consapevolezza sbaraglia ogni disturbo psichico e spalanca la porta al più alto benessere.
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